NERI MARCORE’: QUELLO CHE NON HO
Riflessioni tra De Andrè Pasolini e la Tv

Milano, 24 febbraio 2017

Ieri sera al Teatro Manzoni di Monza (in scena sino al 26/2) ho assistito alla prima di Quello che non ho (drammaturgia e regia di Giorgio Gallione), monologo musicale di Neri Marcorè che mette sul palco canzoni di Fabrizio De Andrè e riflessioni (a volte amare) sui temi che soffocano la nostra coscienza: gli ultimi, l’inquinamento, l’incoscienza civile, la stanchezza e la “nuova orrenda preistoria” di pasoliniana memoria. Il garbo, l’ironia, la luce finale stemperano un menu che sulla carta potrebbe sembrare eccessivo e che invece coinvolge e provoca il giusto. Si esce ragionando, con i pensieri accesi. E’ proprio vero che la divulgazione popolare ha bisogno di maestri che trasferiscano il sapere con la semplicità del pop. Neri è uno di quelli, mai dogmatico né presuntuoso, semplicemente appassionato e terribilmente divertente (oltre che bravo). Alla fine dello spettacolo gli ho fatto qualche domanda, partendo proprio dal teatro, una dei tanti canali di comunicazione da lui frequentati.

Il teatro è una dimensione magica. Quello che succede quando sali sul palcoscenico non è paragonabile a nessun altro canale espressivo, almeno di quelli che frequento io. Mi è capitato di avere la febbre alta e di dover recitare lo stesso senza sentire un brivido o un sintomo che poi è ineluttabilmente tornato  appena terminata quell’ora e mezza di recitazione. Il teatro non morirà mai, è la migliore tra le forme espressive, è insostituibile e quando c’è corrispondenza tra chi sta sul palco e gli spettatori è davvero un momento indescrivibile.

Quando reciti a teatro è come se bussassi porta a porta, la tv (non proprio benedetta dal tuo testo teatrale) è più veloce e arriva a tantissima gente

Quello che si demonizza nel testo, prendendo spunto da uno scritto di Pasolini di 40 anni fa, non è tanto la Tv quanto l’utilizzo che il cosiddetto “potere” ne ha fatto negli anni per scopi propagandistici o per gettare fumo negli occhi. E’ chiaro che la Tv arrivando nelle case di tantissima gente, comporta anche una consapevolezza da parte di chi la fa e un utilizzo consapevole di chi ne fruisce. Il teatro in effetti è un po’ come bussare al cuore delle persone, anche se poi sono loro che fisicamente si spostano e vengono a trovarti lì, ma appena si apre il sipario è un po’ come se dovessi conquistarti la fiducia di ognuno di loro in una sospensione di giudizio finchè non finisce lo spettacolo e con un racconto come questo che non è proprio leggerissimo anche se non manca della “leggerezza calviniana”  il risultato non era scontato. Alla fine invece uscendo da teatro è come se si ricreasse una sorta di comunità che si riavvicina e si guarda con occhio diverso, più indulgente, più benevolo come accade durante la recitazione quando si  parla di Rom o di categorie sociali considerate degli ultimi, soggetti che ci fanno sentire scomodi e dai quali preferiamo girare lo sguardo. Alla fine capire che siamo tutti esseri umani su questa terra e che se ci si aiuta forse riusciamo a vivere questo passaggio in maniera più felice, è uno dei piccoli semini che vengono lanciati durante il nostro percorso teatrale.

Quello che non ho si fonda sulle canzoni di Fabrizio De Andrè e prende spunto dalle riflessioni di Pier Paolo Pasolini. Le canzoni sono a servizio del testo o viceversa lo spettacolo è stato pensato attorno alle canzoni?

Per citare “Quelo”, la prima che hai detto. Sulle canzoni di De Andrè si potrebbero scrivere mille spettacoli. In realtà partendo dal punto di vista suo e di Pasolini, la narrazione si snoda attraverso racconti e riflessioni e le canzoni sono strategiche per commentare la narrazione. Non abbiamo scelto le più “famose”, ma quelle che erano adatte e più evocative.

Tu ti senti uno che viaggia in Direzione Ostinata e Contraria?

No, perché mi riconosco una moderazione e una capacità riflessiva che non mi fa mai mettere dalla parte dei ribelli. Mentre De Andrè ha fatto della sua vita un percorso al contrario, provocando quasi come Pasolini con le sue riflessioni, non avendo paura di essere impopolare. Io non temo l’impopolarità ma rispetto la mia natura flemmatica. Anche se quando una cosa non mi piace o c’è da andare contro il conformismo, lo dico, senza alzare i toni, ma senza tacere. Non faccio della direzione ostinata e contraria una missione, ma se capita rivendico la possibilità di essere in disaccordo.

Una tourneè che durerà fino ad aprile come scelta e viaggio consapevole, nonostante la fatica?

Assolutamente. Come ogni scelta che faccio. Lavorando in buona fede e onestamente dal punto di vista intellettuale, solitamente arrivano anche i risultati. Sono contento dell’esito di questo spettacolo e della coesione del gruppo di lavoro, con i musicisti Giua, Pietro Guarracino e Vieri Sturlini e con tutte le persone che fanno parte della produzione. Oltre alle capacità, do molto valore ai rapporti umani e devo dire che sono davvero molto fortunato a lavorare con questa squadra.

Se un domani volessi tornare alla televisione “divulgativa” sappi che ci sono molti orfani come me di programmi come “Per un pugno di libri” con il professor Piero Dorfles

Quella è stata una trasmissione fondamentale anche per me, dove ho imparato tanto. Credo però che sia sempre meglio anticipare la parabola discendente che fatalmente hanno tutti i fenomeni nella vita. Ho lasciato dopo 10 anni di conduzione, nonostante avessi ancora forza, entusiasmo ed energia. Preferisco rimanga un po’ di desiderio, piuttosto che rischiare l’indigestione o peggio la routine.

Paola Gallo©

 

Su archivolto.it tutti i dettagli della produzione e le date della tournée 

 

 

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