Cinema
Il Caso Spotlight e non solo…

Milano, 6 marzo 2016

Sono una giornalista ed un essere umano piuttosto sensibile e ieri ho visto il film  Il caso Spotlight. Sono uscita dal cinema con lo stomaco gonfio di lacrime che, tanta era la rabbia e la provocazione, non riuscivano nemmeno ad arrivare agli occhi. Ma poi ho razionalizzato e, al di là del l’indignazione profonda per come i poteri forti riescano ad insabbiare i crimini più obbrobriosi, rimane la domanda sul lavoro del giornalista. Un professionista che, a prescindere dal suo interesse di competenza, dovrebbe vivere e ragionare da solo, non accettare suggerimenti e consigli, non farsi blandire da sponsor e uffici stampa, non farsi inghiottire dal potere.

L’America è un paese altamente contraddittorio ma razionalmente “libero”. Permette a Trump di comprare la stampa, ma lascia che la stampa di Trump trovi il coraggio per demolirlo.

Quello che ho imparato ieri è che non esistono poteri abbastanza forti da giustificare il nostro silenzio e che ogni giornalista nel mondo a partire da me dovrebbe ripensare seriamente alla sua funzione. Dal direttore ben pagato al precario da 3 euro al pezzo.

Fare il giornalista significa raccontare quello che va, ma soprattutto quello che non va. Costi quel che costi. E se si decide di occuparsi di giornalismo d’inchiesta (a proposito in Italia, Espresso a parte, esiste ancora?) non si deve andare a sorridere in TV o a cena con i politici.

Fare bene il proprio lavoro è fatica in tutti i campi. Fare bene il giornalista non è entrare gratis nei musei o essere invitati alle feste dei vip, ma è sentire tutti i giorni di aver provato a raccontare un centimetro di verità, che a volte vuol dire salvare bambini innocenti dalla pedofilia.

Anche se per mia fortuna io ascolto i dischi e li racconto e non mi occupo di cronaca, questa lettera aperta è prima di tutto per me.

Paola Gallo©


Condividi sui social:

1 Comment

  • in realtà mi è piaciuto molto il regista quali altri film mi consigliate

Lascia un commento